mercoledì 15 dicembre 2010

We Want Sex, cronaca (non zuccherina)di una rivoluzione in rosa

Attenzione! questo post non contiene trama


Di film di questo tipo se ne son visti molti. Racconti di svolte epocali, di rivoluzioni resi con una storia facilmente seguibile, a volte divertente, a volte commuovente. Ecco. Questo film è fondamentalmente già stato fatto, prendendo in esame altre tematiche, ovviamente. Trovo che il pregio di questa pellicola stia nel non romanzare eccessivamente una storia già di per sé affascinante.
Il racconto di come alcune donne coraggiose siano riuscite a ottenere l'uguaglianza retributiva in un Inghilterra in pieno sviluppo industriale è senz'altro affascinante. Il fatto che ci siano riuscite all'interno di una fabbrica d'auto, in cui il loro compito era quello di cucire le coperture dei sedili, poi, rende il loro gesto doppiamente difficile e, quindi, doppiamente coraggioso. Sarebbe stato più semplice ottenere vantaggi in un settore meno dominato dagli uomini e meno misogino. Ma loro hanno perseverato e, come spesso accade nei film, e solo poche poche accade nella vita reale, hanno trionfato.
Questa la storia. Arricchita da vicende personali e da aneddoti piuttosto comici, ovviamente. Ma mai così alterata ed edulcorata da infastidire, come purtroppo capita in film di questo genere. Gli sceneggiatori hanno avuto il coraggio di proporre al pubblico la storia di un passaggio difficile, affrontandola in modo non troppo tragico. Le (quasi) due ore scivolano via, con leggerezza. Appunto, tema importante trattato con leggerezza. E, per una volta, non in senso negativo. Una leggerezza che significa non calcare troppo su alcuni personaggi e su determinati passaggi, lasciando che lo spettatore ci arrivi da solo. E quando si giunge ai titoli di coda l'impressione è proprio quella di aver visto un bel film (certo non un capolavoro epocale) che consente di pensare. E di discutere, soprattutto. E questa è la cosa più piacevole.
Un sentito grazie agli sceneggiatori inglesi che, per una volta, non hanno fatto l'errore di sottovalutare lo spettatore. E ho fatto pure la rima. Tié.


bisous,
Marta

venerdì 19 novembre 2010

The Social Network, ovvero come mangiarsi le mani pensando "ci potevo arrivare anch'io"

Attenzione! Questo post non contiene trama.

Sono partita con molte aspettative su questo film. Soprattutto perché il trailer era sufficientemente brutto da convincermi che valesse la pena vederlo. Inoltre, la critica ne parlava bene e la massa non se lo filava di striscio. Nonostante l'argomento fosse intrigante. Il regista, poi, è uno dei miei preferiti in assoluto. David Fincher. Quindi presupposti buoni, buonissimi. Ed è davvero bello non rimanere delusi.

La storia è nota, l'ultimo sfigato di una prestigiosa università americana ha un'intuizione geniale. Il problema è che la realizza rubacchiando qua e là ciò che gli serve. Ecco, questa più che essere la vicenda di come Mark Zuckerberg inventò il social network più famoso del mondo, è la vicenda di chi venne coinvolto in questa invenzione, chi fu derubato(e si vendicò) e chi ne approfittò(e ne gode ancora). La sceneggiatura di una storia di questo calibro, che contiene in partenza tutti gli elementi che interessano al pubblico(soldi-sesso-tradimenti) si scrive con la mano sinistra, tanto per citare il mio professore della scuola di giornalismo. Detto questo, i dialoghi sono brillanti e cinici come solo in un film possono essere. I personaggi ben definiti e gli attori credibili, due tra tutti: Jesse Eisenberg che riesce a mantenere la stessa espressione da pesce lesso di Mark per tutto il film, e un Justin Timberlake inaspettato e sorprendente.
La fotografia è lo specchio della trama: toni freddi, cupi, uso del verde e del blu. L'atmosfera è perfetta. Ed è la cura dei particolari ciò che rende questo un film da vedere. La sequenza della gara di canoa, poi, un capolavoro.
So che a molti può non piacere ma quando mi innamoro di un film sono così, totalmente priva di obiettività. Ve ne farete una ragione. Quindi, andate a vederlo perché merita davvero. Anche solo per farsi un'idea su come è nato il luogo in cui passiamo la maggior parte delle nostre giornate. E su quanti soldi si sia fatto quel grandissimo sfigato di Zuckerberg, mangiandoci le mani mentre pensiamo:"Cazzo! Ci potevo arrivare anch'io!".

Bisous,
Marta


lunedì 1 novembre 2010

Recensione: Maschi contro Femmine, l'ennesima marchetta all'italiana

Attenzione! Questo post non contiene trama.


Penso di aver sviluppato un metodo, sufficientemente preciso, per capire se il film che mi accingo a vedere sarà bello o brutto. Tutto sta nell'osservare la sala di un qualsiasi multisala, nel mio caso l'uci cinema di Pioltello. Il livello di bellezza del film è inversamente proporzionale al numero di persone presenti in sala, quindi: da 0 a 10 persone= capolavoro, da 10 a 50= bel film, e così via. Ecco, in questo casa la sala era strapiena di ragazzi tra i 15 e i 30 anni, il che funge da aggravante. Dunque, film decisamente bruttino.
Immaginate il mio stato d'animo, quindi, quando il film comincia e noto, con sommo dispiacere, che la prima scena è costituita essenzialmente da una pessima cicogna animata, accompagnata da una canzone fatta ad hoc, inascoltabile.
Si tratta di una classica storia corale in cui le vicende dei personaggi si intersecano per tutto il tempo, solito escamotage per dare ritmo e non far perdere troppo il filo allo spettatore. Niente di nuovo: lui tradisce lei che poi punisce lui che poi si pente e torna da lei che nel frattempo vuole un altro lui, oppure lui che tradisce lei che poi si innamora di un altro lui, oppure lui che odia lei e lei che odia lui ma poi lui ama lei e lei ama lui, eccetera eccetera eccetera. E non dimentichiamoci della botta di novità destinata a noi gggggggiòòvani: una bella storiella di amicizia tra un etero e una lesbica, banalotta e superficiale.
Le donne ne escono come inizialmente sconfitte ma poi vincitrici, gli uomini come iniziali vincitori poi sconfitti, tutti cattivi ma non troppo, tutti recuperati o recuperabili grazie al potere salvifico dell'amore. Alé. Battute divertenti, sì, ma niente che non si fosse già visto nel trailer.
Mi è dispiaciuto trovarmi davanti una sceneggiatura così banale. Davvero. Soprattutto se penso al cast d'eccezione che si aveva a disposizione. Si parla dei migliori comici presenti sulla scena italiana, bravi, bravissimi, e sprecati. O forse scelti perché si sa, ne basta anche solo uno per rendere il film degno di essere visto. Bella furbata. Non oso immaginare cosa sarebbe stato questo filmucolo senza di loro. Forse l'ennesima commedia pseudo-romantica all'italiana stile Oggi Sposi, o fose peggio. Brrrrrrr. Rabbrividisco.


Ah quasi dimenticavo di narrarvi delle continue marchette di cui è infarcita questa pellicola, spero vivamente che quelli di Impresa Semplice e di Intimissimi abbiano pagato bei soldoni per far sì che i loro nomi campeggiassero in maniera così imbarazzante sullo schermo per l'80% della durata del film. Senza vergogna. Complimentoni.
E ci sarà anche il sequel, pubblicizzato nei titoli di coda. Con comici tutti nuovi, tanto per non rischiare di perdere qualche spettatore. Non vediamo l'ora.


Bisous,
Marta

martedì 26 ottobre 2010

Recensione: Buried, l'essenziale che funziona

Attenzione! questo post non contiene trama

Di questo film se ne è parlato moltissimo. Per questo motivo sono andata al cinema sapendo che mi sarei ritrovata a passare un'ora e mezza chiusa in una bara con lo splendido Ryan Reynolds. Ammetto che la sua presenza aiuta a superare la terribile claustrofobia che si accusa nei primi 20 minuti nel film, anche se poi, in tutta onestà, ci si abitua. 
L'estrema semplicità di questo film è la sua vera forza. L'ambientazione è fissa, le riprese sono fisse sull'unico attore presente per tutta la durata della pellicola. Il protagonista regala una prova, a parer mio, straordinaria. Mai un ammiccamento al pubblico, mai un'espressione sorniona, solo essenziale interpretazione del dolore, della paura e della rabbia. Le sue capacità unite al sapiente uso delle inquadrature rendono la narrazione molto fluida, tanto che alla fine ci si dimentica di essere stati chiusi in una cassa tutto quel tempo.
La storia non è molto complicata e il finale a sorpresa di cui si è sentito tanto parlare, se ci si pensa bene, non è niente che non ci si possa aspettare fin dall'inizio. Tenendo conto delle varie infarciture di pacifismo tutto all'americana trovo che questa sceneggiatura sia ben riuscita soprattutto nella parte di critica alla burocrazia. Le telefonate che il protagonista fa cercando di cambiare il proprio tragico destino vengono messe a dura prova da jingle e operatori di call-center inetti che fanno crollare i nervi e perdere la speranza. Ne emerge un senso di impotenza che infastidisce molto più dell'impossibilità di muoversi.  L'alternanza di momenti di rassegnazione con altri in cui sembra che la soluzione sia vicina crea una tensione che resta palpabile, e plausibile, per tutta la durata del film. Tanto che lo spettatore si ritrova ad immaginare soluzioni assurde, intrighi internazionali, per poi piombare nel più bieco cinismo e, ancora, sperare nel tanto agognato happy ending.
Particolarmente apprezzato per una riduzione ai minimi termini passata di moda in questo periodo di film pieni zeppi di effetti speciali inutili e noiosi, questo film è un bel thriller, sicuramente particolare e diverso dal solito che merita di essere visto. Anche solo per l'intenzione iniziale. Con un occhio a Tarantino.
Bisous,
Marta

Recensione: Una Sconfinata Giovinezza, ovvero l'amore che può (quasi) tutto

Attenzione! questo post non contiene trama.


Non è mai facile parlare di un film che ti è piaciuto molto, che ti ha toccato. E' indubbiamente più semplice raccontarne uno carino, mediocre o pessimo perché ti consente di essere oggettivo. Bene, sappiate che non sarò oggettiva.
Penso che l'obiettivo di Pupi Avati fosse quello di raccontare una storia a cui nessuno potesse restare indifferente, forse perché si parla di malattia. E di una in particolare, l'alzheimer. E forse perché lo fa mettendosi dalla parte di chi questa malattia la subisce, insieme al malato. E' così che da storia di una malattia si trasforma, inevitabilmente nella storia di un amore.
Lino e Chicca sono i protagonisti, interpretati magistralmente da Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri. Non c'è molto da dire sulla trama, Lino si ammala e improvvisamente tutto cambia per lui, e per Chicca. La sofferenza, la violenza, l'abbandono e, infine, l'amore. Amore che si trasforma, passando da coniugale a filiale. Chicca trova il modo di comunicare con Lino, diventando insieme mamma e compagna di giochi. Commuovente la scena in cui giocano con i tappi di bottiglia sul pavimento di casa, proprio come fanno i bambini. Sì, perché Lino si è rifugiato nella sua infanzia, estraniandosi completamente dal mondo che lo circonda. E magari non ricorda più i nomi dei parenti, ma quelli dei ciclisti dell'epoca se li ricorda bene, e include la sua Chicca in questo suo viaggio infantile. Lei si lascia guidare da questo eterno ragazzo che le mostra una realtà, non tangibile, ma vivida nella sua mente.
Questa componente di memoria ci consente di immergerci nel passato  del nostro protagonista. Un passato triste, per via della morte dei genitori, costituito essenzialmente da una casa di campagna in cui passare l'estate con gli zii e i ragazzi del paese: il ragazzo senza palato, il mitico guaritore, la ragazzina da spiare, il cane Perché. Avati ne approfitta per descrivere, con occhio cinico, la pochezza di certi individui di campagna che contrappone, con abilità, alla famiglia di Chicca, borghese e benestante, ma altrettanto priva di sensibilità.
Che dire del finale? Sorprendente nella sua semplicità. Poco realista, fa però venire da pensare che non poteva finire altrimenti. Poetico.
Il film è assolutamente da vedere. So che può far paura a chi, per età, si immedesima con il protagonista maschile ma bisogna superare questo iniziale timore. La ricompensa è la sensazione che ti pervade quando si esce dal cinema: una sconfinata tenerezza. Buona visione.
Bisous,
Marta



sabato 2 ottobre 2010

Recensione: Benvenuti al Sud, quando il pregiudizio diventa divertente

Attenzione! questo post non contiene trama.


Che non avesse grandi pretese lo si era capito sin dal trailer. La conferma arriva guardando il film, che non vuol essere più di quello che è. Una bella commedia.
Remake ufficiale di Giù al Nord, con tanto di piccolo cameo del protagonista Dany Boom, Benvenuti al Sud ripropone le stesse tematiche e la stessa struttura del successo francese. Con la differenza che, questa volta, nulla si perde nella traduzione e il gioco dei dialetti, base della comicità del film, riesce alla perfezione. Le gag e i tempi comici sono magistralmente gestiti dai due attori protagonisti, Claudio Bisio e Alessandro Siani. L'etera lotta tra Nord e Sud, con i pregiudizi e gli stereotipi che già ci fa tanto sorridere nella realtà, qui fa ridere, e molto.
Bisio, pur senza perdere la dolcezza e la lieve malinconia che ne caratterizzano lo sguardo, fa il comico puro, eccellendo. La Finocchiaro, nella magistrale interpretazione di moglie polentona e assurdamente nevrotica, si alterna alla Lodovini, che si conferma attrice capace e fiera rappresentante della donna mediterranea. Il cast nell'insieme funziona, i personaggi fortemente caratterizzati conferiscono alla pellicola un'allure quasi teatrale.
La trama, pur essendo semplice e già vista, risulta scorrevole e le due ore scivolano velocemente, tra una risata e l'altra. 
La capacità di questo film sta nel trattare la tematica della differenza in modo sufficientemente leggero da non risultare pretenzioso ma senza sfociare nella mera commedia degli equivoci, all'italiana. Ci sono anche due belle storie d'amore, diverse per età e provenienza geografica dei protagonisti, che inteneriscono e divertono allo stesso tempo. Insomma, non manca proprio niente. La fotografia è bella e ricca, i dialoghi sono ben strutturati e la trama è arricchita da un pizzico di romanticismo.
Si esce dal cinema sapendo di non aver sprecato due ore della propria vita. Il che, visti i tempi, è già un gran bel successo.
Bisous,
Marta



giovedì 30 settembre 2010

Recensione: Inception, ovvero come rendere complicato ciò che nasce semplice.






Attenzione! Questo post NON CONTIENE TRAMA ma solo commenti politicamente scorretti. Se volete una recensione super partes vi consiglio Mymovies. Se cercate un parere ex post, spassionato e totalmente discutibile siete nel posto giusto.

Celebrato come il film rivelazione del 2010, Inception si rivela deludente.

Non da subito però. 
L'inizio è accattivante. La prima ora e mezza passa velocemente, quasi non ce ne si accorge. La costruzione del mondo onirico cattura tutta l'attenzione(anche perché è l'unico elemento del film ad esserne degno pur non essendo dovutamente approfondito), le vicende personali del protagonista danno corpo a un'idea embrionale di trama. Peccato che poi tutto si sfasci, e si cominci a guardare l'orologio nella speranza che le lancette segnino la fine delle due ore e venti di film.
La seconda parte del film entra nel vivo(e nel banale), la missione è un susseguirsi di sparatorie e inseguimenti al fine di permettere ad un industriale giapponese di non perdere il suo impero. Sparatorie per strada, sparatorie in albergo, sparatorie sulla neve. (Bum. Bum. Bum. Bum. Zzzzzzzzzzzzzzzzz. Tanto per essere onomatopeici). Missione, ovviamente, compiuta. Olé. Ci si sveglia un po' alla fine, sperando in un colpo di scena in puro stile Shutter Island, ma niente. La sorpresa è che è tutto esattamente come ci si aspettava che fosse, come il povero Leo diceva sin dall'inizio.
I tre piani dell'onirico di cui tanto si parla svaniscono dietro a scene troppo lunghe, piene di elementi ed effetti speciali che, oramai, non impressionano più nessuno. La trama è relativamente semplice nonostante utilizzi delle sovrastrutture barocche per mascherare le sue mancanze. Da un film così osannato ci si aspetterebbe un approfondimento maggiore sulla filosofia che sta dietro al procedimento di costruzione del sogno, sul perché si sceglie di estrarre/immettere un'idea, sui risvolti psicologici profondi che questo provoca. Non ci si può limitare a far comportare i magnifici protagonisti come se fossero in bilico tra follia e sanità mentale per far sì che si comprenda tutto ciò che sta dietro la concezione del Sogno.
Il grande difetto di questo film sta proprio nella superficialità con cui affronta tematiche di tale sconvolgente portata per l'essere umano. Il confronto con l'amatissimo Matrix non regge. Matrix è lontano anni luce. Il tema portante non è nemmeno paragonabile, la semplicità con cui tale tema fu trattato nemmeno. Come diceva la mia professoressa di francese: "Ce qui se conçoit bien, s'énonce clairement". Evidentemente Nolan non concepisce chiaramente ciò che ha cercato di riprodurre sullo schermo. Altrimenti avrebbe speso dieci minuti in più per spiegare come vengono costruiti i sogni e dieci minuti in meno per mettere in scena l'interminabile trasferimento dei Belli Addormentati nell'ascensore. Bisogna però ammettere che Nolan è abile nel rendere concreto il titolo del film, l'idea che un banale film d'azione(per quanto bello e pretenzioso possa essere) diventi il capolavoro del 2010 è stata impiantata a (quasi)tutti. 
Speriamo che si tratti solo di un sogno. Nel dubbio, sparatevi. Bum.

Bisous,
Marta


Nella foto, il momento più alto del film. "Non devi avere paura di sognare con un'arma più grossa." Cit.